10 settembre 2015

H. ARENDT SU SOCRATE E PLATONE





Il rapporto fra i due pensatori greci, il ruolo dei sapienti nella polis e la tradizione occidentale in un’originale riflessione di Hannah Arendt finora inedita in Italia. Ne riprendiamo l'incipit.

Hannah Arendt

Su filosofia e politica Platone tradì Socrate



Il testo di Hannah Arendt è l’incipit di Socrate, un saggio che compare per la prima volta in traduzione italiana Il volume, a cura di Ilaria Possenti, che ha scritto anche l’introduzione, e con interventi critici di Adriana Cavarero e Simona Forti, è pubblicato da Raffaello Cortina (pagg. 123, euro 11)

L’abisso tra filosofia e politica si apre storicamente con il processo e la condanna di Socrate, che nella storia del pensiero politico rappresenta un punto di svolta analogo a quello rappresentato dal processo e dalla condanna di Gesù nella storia della religione. La nostra tradizione di pensiero politico ha inizio quando, con la morte di Socrate, Platone perde ogni speranza nella vita della polis e giunge a mettere in dubbio anche i fondamenti dell’insegnamento socratico.

Il fatto che Socrate non fosse riuscito a persuadere i giudici della propria innocenza e dei propri meriti, che erano così ovvi per i migliori cittadini ateniesi e per i più giovani, aveva indotto Platone a dubitare del valore della persuasione . (...) Per gli Ateniesi la persuasione, peithein , era la forma specificamente politica del discorso. (...) L’argomento centrale di Socrate, nel discorso pronunciato in propria difesa di fronte ai cittadini e ai giudici ateniesi, era l’aver sempre agito nell’interesse della città. 

Nel Critone , lo vediamo spiegare agli amici che non può fuggire, e che deve anzi accettare la pena di morte, per ragioni politiche e filosofiche. Ma pare che Socrate non sia riuscito a persuadere i suoi giudici, né tantomeno a convincere i suoi amici. Per così dire, la città non sapeva che farsene di un filosofo e gli amici non sapevano che farsene dell’argomentazione politica.

Tutto questo rientra nella tragedia di cui i dialoghi platonici recano testimonianza. Strettamente connessa al dubbio sul valore della persuasione è la furiosa denuncia che Platone fa della doxa , l’opinione. Questa denuncia, oltre a percorrere come un filo rosso le sue opere politiche, diventa una delle pietre angolari del suo concetto di verità. In Platone la verità è sempre intesa, anche quando la doxa non è menzionata, come l’esatto opposto dell’opinione ( doxa).
È lo spettacolo di Socrate che sottopone la propria doxa alle opinioni irresponsabili degli Ateniesi, e che viene infine sconfitto da una maggioranza, a spingere Platone al disprezzo delle opinioni e a fare di lui un ardente fautore di criteri assoluti — cioè di criteri in base ai quali le azioni umane possano essere giudicate e il pensiero umano possa acquisire un certo grado di esattezza. Da quel momento, sarà questo l’impulso primario della sua filosofia politica, e tale impulso influenzerà in modo decisivo anche la dottrina puramente filosofica delle idee.



Personalmente non penso, come spesso si sostiene, che il concetto delle idee fosse in primo luogo un concetto di standard e misure, né penso che la sua origine fosse politica. Ma questo equivoco è tanto più comprensibile e giustificabile dal momento in cui Platone è il primo a usare le idee per scopi politici, cioè per introdurre criteri assoluti nella sfera degli affari umani, dove, senza criteri trascendenti di questo tipo, tutto resta relativo. Come lo stesso Platone era solito far notare, noi non sappiamo che cosa sia la grandezza assoluta, ma abbiamo solo esperienza del fatto che qualcosa è più grande o più piccolo di qualcos’altro.

Sicuramente, la contrapposizione tra verità e opinione è la conclusione più antisocratica che Platone potesse trarre dal processo di Socrate. Ai suoi occhi, fallendo nel tentativo di convincere i cittadini, Socrate aveva mostrato che la città non è un posto sicuro per il filosofo: non solo nel senso che il possesso della verità mette in pericolo la vita del filosofo; ma anche nel senso, assai più rilevante, che non si può fare affidamento sulla città per preservare la memoria del filosofo, la sua presumibile grandezza e la fama immortale che gli è dovuta. 

Se erano arrivati a uccidere Socrate, gli Ateniesi sarebbero stati fin troppo propensi a dimenticarlo una volta morto. Per salvaguardare la sua immortalità terrena, occorreva incoraggiare i filosofi a una solidarietà tutta loro, contrapposta alla solidarietà con la polis e con i concittadini. Per questo Platone avrebbe infine rivoltato contro la città un vecchio argomento usato contro i sophoi (i sapienti), e ancora presente in Platone e Aristotele: i sapienti non sanno che cosa sia bene per loro (che è il prerequisito della saggezza politica), appaiono ridicoli quando si mostrano nella piazza del mercato, e sono di fatto lo zimbello di tutti (come Talete, che fu deriso da una giovane contadina quando si mise a fissare il cielo e cadde nel pozzo ai suoi piedi).

Per comprendere l’enormità [della replica di Platone, cioè] della pretesa che il filosofo governi la città, dobbiamo tenere ben presenti questi comuni pregiudizi, che la polis nutriva nei confronti dei filosofi ma non nei confronti di artisti e poeti: solo il sophos non sa che cosa sia bene per se stesso, e ancora meno sa che cosa sia bene per la polis.

L’ideale platonico del sophos o sapiente che governa la città deve qui essere inteso in contrapposizione all’ideale comune del phronimos , colui che è capace di comprensione, e che in virtù della sua perspicacia negli affari umani è qualificato per la leadership — ma non per regnare. Nella polis la filosofia, l’amore per la sapienza, non era affatto identificata con la saggezza, con la phronesis . Il sapiente, infatti, si occupa di questioni estranee alla vita della polis. 

E Aristotele concorda pienamente con l’opinione comune quando afferma: «Anassagora e Talete erano sapienti ma non saggi. Non si interessavano di ciò che è bene per gli uomini — gli anthropina agatha». Ora, Platone non negava che il filosofo si occupasse di argomenti eterni, immutabili, non umani. Ma non era d’accordo sul fatto che ciò lo rendesse inadatto a un ruolo politico. Ossia non era d’accordo con la polis , secondo la quale il filosofo, proprio perché disinteressato a ciò che è bene per gli uomini, corre continuamente il pericolo di diventare un buono a nulla (...). 

Questa accusa, e cioè che la filosofia possa fiaccare le qualità del cittadino, è implicitamente contenuta nella famosa affermazione di Pericle: «Amiamo il bello senza esagerazione e amiamo la sapienza senza sdolcinature ed effeminatezze». In altri termini, diversamente da noi e dai nostri pregiudizi, che imputano “sdolcinature” ed “effeminatezze” all’amore per il bello, i Greci vedevano pericoli di questo tipo nella filosofia. La filosofia, intesa come interesse per il vero senza riguardo per gli affari umani (e non come amore per il bello, che era rappresentato dappertutto nella polis , nelle statue come nella poesia), spingeva i filosofi fuori dalla polis e li rendeva incapaci di occuparsene. 


La Repubblica – 2 settembre 2015

Nessun commento:

Posta un commento