11 aprile 2014

LA CULTURA NASCE ANCHE A TAVOLA



Massimo Montanari

L’Europa è un’Unione fondata sul maiale

Dal Medioevo la nostra cultura comune nasce anche a tavola con pane e carne, vino e birra

Esiste una cucina europea? Si direbbe di no: la varietà degli ingredienti, dei modi di preparazione, dei gusti che caratterizzano i singoli paesi e le singole regioni dei singoli paesi sta a testimoniare una diversità di culture, di vicende storiche, di atteggiamenti nei confronti del cibo. Tuttavia, è anche evidente l’esistenza di una comune identità, che, nell’insieme, contraddistingue come un’unità queste diverse culture. Un’identità in qualche modo analoga a quella che si ritrova all’interno di ciascun paese, che dall’esterno appare dotato di una cultura omogenea ma poi si rivela, a guardarlo più da vicino, articolato e differenziato.
Anche l’Europa nel suo insieme funziona così: grandi diversità locali, regionali, nazionali; forte identità complessiva. Fra questi due poli solo apparentemente contraddittori si muove la cultura alimentare degli europei. L’identità si forma con la nascita stessa dell’Europa ed è, dunque, una creazione medievale. Essa nasce dall’incontro - dapprima soprattutto uno scontro - tra culture diverse e contrapposte: quella dei romani (nozione estremamente diversificata al suo interno, che esprime un’appartenenza civile e non etnica) e quella dei barbari, le popolazioni di stirpe germanica e slava che nel Medioevo entrano in Europa: esattamente da questo incrocio prende vita la nuova civiltà medievale, né romana né barbarica, ma le due cose insieme.
Agli albori del Medioevo, lo scontro fra romani e barbari è anche uno scontro di modelli alimentari: la cultura del pane, del vino e dell’olio (simboli della civiltà agricola romana) si oppone alla cultura della carne, della birra e del burro (simboli della civiltà barbarica e in particolare delle popolazioni germaniche, più legate all’uso della foresta che alla pratica dell’agricoltura).
Ma i due mondi a poco a poco si integrano e si viene delineando un modello alimentare romano- barbarico che rispecchia da vicino ciò che sta avvenendo in tutti i campi del vivere civile, sul piano delle strutture sociali (con il mescolarsi delle etnie), delle istituzioni (la formazione dei cosiddetti regni romanobarbarici), della cultura giuridica (l’innesto delle consuetudini non scritte delle nuove popolazioni nella tradizione legislativa romana).
I modi di sfruttamento del territorio e i costumi alimentari vengono anch’essi uniformandosi, con l’incrocio tra cultura agricola e cultura forestale, che dà vita a modi di produzione complessi che mescolano cereali, la viticoltura e l’orticoltura all’allevamento brado del bestiame, alla caccia.
Il fascino dei modelli antichi (tradizione romana) e il prestigio della nuova classe dirigente (in prevalenza barbarica) sono veicoli di questa integrazione, che finisce per assegnare non a uno, ma a due prodotti-chiave, il pane e la carne, il ruolo di protagonista. Se per la cultura romana il pane era il cibo ideale dell’uomo, e se per la cultura barbarica questo ruolo spettava alla carne, nel Medioevo si afferma una nuova cultura che vede nella compresenza di pane e carne (dei prodotti vegetali e dei prodotti animali) il modello perfetto di regime alimentare.
In tale processo di osmosi è decisiva la diffusione del cristianesimo, da un lato perché essa significa una forte promozione d’immagine del pane, del vino e dell’olio, simboli e strumenti della nuova fede; dall’altro perché la Chiesa introduce obblighi di alternanza fra cibi diversi - “di grasso” e “di magro”: se durante la Quaresima (e in altri giorni di penitenza) si doveva rinunciare alla carne e ai grassi animali, sostituendoli con cereali e verdure e con gli oli vegetali, non meno vincolante era la consuetudine di segnalare con il consumo di carne e di lardo le feste (per non parlare del Carnevale). In questo modo si sollecitava la presenza di tutti i cibi, di tutti i grassi, di tutti i condimenti su tutte le tavole dell’Europa cristiana.
Soprattutto un tipo di carne, quella di maiale, diventerà il simbolo di questa Europa, non solo per motivi di carattere economico (la centralità della pastorizia suina) ma anche per cause culturali e religiose: il maiale, escluso dalla mensa ebraica e da quella isla- mica, funzionava perfettamente da indicatore dell’identità cristiana.
Questo fenomeno di integrazione, che nei secoli medievali venne delineando una comune identità alimentare dell’Europa, si percepisce anche sul piano della gastronomia, ossia nella preparazione degli alimenti. Innanzitutto dietro tali scelte si intravede una comune cultura dietetica, basata sui fondamenti dettati dalla scienza di Ippocrate e Galeno.
Le modalità di cottura, gli accostamenti tra carni e salse, si definiscono in base a regole ribadite in tutti i trattati di medicina del tempo: combinare le diverse qualità degli alimenti (umida o secca, fredda o calda) in rapporto alle necessità; temperarle fino a raggiungere un punto ideale di equilibrio...
Queste norme si travasano nelle pratiche di cucina, rendendole “filosoficamente” coerenti e omogenee. Anche per questo i ricettari manoscritti del XIV-XV secolo rivelano, al di là delle differenze regionali, una forte circolarità di idee, una sorta di koinè gastronomica che unisce i paesi europei nel nome di ricette simili, di gusti affini.
L’agrodolce, per esempio, trionfa ovunque. Così l’uso delle spezie, legato sia alle teorie dietetiche del tempo (che assegnavano a quei prodotti capacità digestive) sia al prestigio che le costose polveri orientali conferivano alla tavola.
Eppure, questa cucina internazionale conosce infinite varianti locali. Una micro-storia è istruttiva poiché ci mostra lo straordinario spessore storico che si nasconde dietro le tradizioni di cucina. Nei modi diversi di preparare il cibo si percepisce un forte retrogusto storico, e non è difficile intuire quanta ricchezza e varietà di sapori possa aver prodotto una storia travagliata e complessa come quella dell’Europa medievale e moderna.
Dietro ogni prodotto, dietro ogni piatto, dietro ogni sapore c’è una storia diversa, e si è ormai fatta strada con forza l’idea che valga la pena studiare queste storie, conservare e valorizzare quei prodotti, quei piatti, quei sapori come altrettanti “beni culturali”. In tale direzione si muovono recenti iniziative della Ue, volte a censire le varietà gastronomiche locali nel segno della cosiddetta tipicità.


La Repubblica – 10 aprile 2014

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