CESIM - Centro Studi e Iniziative di Marineo
“Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti.” Antonio Gramsci
22 aprile 2024
OGGI, GIORNATA MONDIALE DEL LIBRO, SI PRESENTA IL MIO SAGGIO GRAMSCIANO
LA STORIA COME LUOGO DELLE POSSIBILITA'
La storia come luogo delle possibilità
di Alessandro Zaccuri
Quella che segue è la postfazione di Alessandro Zaccuri al nuovo romanzo di Roberto Plevano “Di spada e di croce”, pubblicato di recente da Edizioni Biblioteca dell’Immagine
Prosecuzione e compimento di un lavoro narrativo e di ricerca storica avviato da anni, Di spada e di croce di Roberto Plevano è un libro che in un colpo solo mette a tacere almeno due pregiudizi. Il primo – e più evidente – è quello che riguarda la natura del romanzo storico. Che non si basa sulla separazione delle carriere tra storia e invenzione, la prima delegata a servire da fondale più o meno accurato e la seconda incaricata di predisporre un adeguato armamentario di personaggi e passioni e colpi di scena. No, il romanzo storico è veramente romanzo quando è storico in tutto e per tutto, come accade appunto nell’opera di Plevano. Certo, il protagonista di questa piccola saga è l’immaginario Amalrico della Provincia, trovatore e filosofo che dal Sud della Francia elegge dimora nel Nordest d’Italia, diventando sodale del principe Ezzelino da Romano e perdutamente innamorandosi della sorella di lui, Cunizza. Il punto però non è questo, la verosimiglianza di una narrazione non può essere demandata alla mera presenza di un nome in un regesto diplomatico.
Di Amalrico, al lettore, interessa la perfetta adesione rispetto alla mentalità e perfino alla lingua dell’epoca che Plevano, medievista di provata esperienza, ha scelto per la sua cantafavola. In Di spada e di croce il fiore del romanzo germina direttamente dal terreno della storia, ne assorbe i succhi e i veleni, applica con ferrea coerenza il rifiuto di ogni anacronismo: culturale, psicologico, lessicale. Anche la passione impossibile tra Amalrico e Cunizza non ha nulla di artefatto, semmai può essere interpretata come rappresentazione estrema dell’amor cortese. Non potendo vivere insieme, gli amanti preferiscono attenersi alla norma di una lontananza che non rende meno acceso il reciproco desiderio. E poco importa se a stabilire le regole del gioco sia la sola Cunizza. Per quanto ignaro, Amalrico sa che questo può accadere. In un certo senso, è un bene che questo, e non altro, accada proprio a lui e alla sua diletta.
Per essere veramente romanzesco, insomma, il romanzo storico non ha alcun bisogno di tradire la storia. Se poi la storia è quella del Medioevo, ecco che un altro pregiudizio si presta a essere abbattuto. Tutt’altro che uniforme, il panorama dell’Età di Mezzo si rivela meravigliosamente accidentato e complesso. Per esempio, in Di spada e di croce eresia e ortodossia stanno a un’incollatura l’una dall’altra e a fare la differenza non è tanto la fedeltà all’Evangelo quanto la compiacenza verso un ordine di potere che spregiudicatamente confonde il sacro con il profano. Plevano sa bene che non esiste un solo Medioevo, e non soltanto perché nel millennio che dalla caduta dell’Impero romano d’Occidente arriva fino alla scoperta dell’America (la periodizzazione è grossolana, ma proviamo ad accontentarci) si susseguono stragi e rinascite, albe luminose e notti all’apparenza interminabili. Il Medioevo è epoca di cambiamenti, non di immobilità. Si rinnovano tecnologie e conoscenze, il latino assume i connotati di una lingua franca vivacemente instabile, i confini si ridisegnano di continuo, sorgono imperi e si estinguono regni. Nei romanzi di Plevano, questo processo magmatico è colto nella sua manifestazione definitiva. Siamo in Italia, nel cuore del XIII secolo, mentre la corte mobile di Federico II si sposta tra la Sicilia e la Marca veneta, portando con sé un’irripetibile mescolanza di saperi e consuetudini. È in quegli accampamenti che si verifica il prodigioso contagio tra la poesia provenzale e la nascente lirica in volgare italiano: è per effetto di quella contaminazione che il notaro Giacomo da Lentini escogita il dispositivo del sonetto, che nei secoli successivi sarà per l’Europa una sorta di linguaggio comune, pressoché indifferente alla dislocazione da un idioma all’altro.
La modernità del Medioevo (che è, per inciso, il momento in cui l’aggettivo modernus assume il suo significato attuale) sta in questa commistione inestricabile di codici espressivi e di istanze concettuali. La stessa contrapposizione tra guelfi e ghibellini, spesso tristemente ridotta a una cruenta forma di campanilismo, trova la sua ragion d’essere nello scontro fra due diverse visioni della realtà. Per restare alla trama dei romanzi di Plevano, Amalrico non sceglie di schierarsi con lo Stupor Mundi per questioni di opportunismo, ma perché in “Friderico” ritrova la sua stessa febbre di conoscenza, lo stesso desiderio di libertà intellettuale che per primo l’imperatore persegue e sostiene. Allo stesso modo, Di spada e di croce – come e più del precedente romanzo di Plevano – non è, a rigore, il romanzo di Ezzelino e della sua corte, ma non si può fare a meno di notare come l’impresa di Plevano sottragga il nome del principe di Romano all’ambiguo fascino da cui è contornato fin dai primi anni del Trecento, quando Albertino da Mussato compone la sua Ecerinis. Una tragedia nello stile di Seneca, autore prediletto nel circolo del cosiddetto preumanesimo padovano. Prima di attecchire a Firenze, dunque, l’imitazione dei classici si annuncia in Veneto, con Albertino che costruisce il suo capolavoro attorno al mito recentissimo del tiranno della Marca.
A differenza di quanto cercano di fare gli storici, Plevano non pretende di fornire una ricostruzione incontrovertibile o, se non altro, a prova di smentita, Per lui, come per ogni romanziere, la storia è il luogo della possibilità. Una battaglia vinta anziché persa, un dispaccio arrivato per tempo, un inquisitore meno feroce degli altri: sarebbe bastato un nonnulla perché gli avvenimenti prendessero una piega differente. La vicenda di Amalrico si colloca proprio qui, sul crinale tra quello che è stato e quello che avrebbe potuto essere. Un terreno misterioso e sorprendente, nel quale solo la letteratura riesce ad avventurarsi.
OATES A PEZZI
OATES A PEZZI
di Gianni Montieri pubblicato lunedì, 22 Aprile 2024 · Aggiungi un commento
Dopo aver letto per molti anni Joyce Carol Oates, averla studiata e amata, non si è ancora stanchi, perché offre sempre qualche nuovo spunto, e nuovi elementi di riflessione circa le potenzialità della sua scrittura e della scrittura in generale. Il talento dell’autrice americana è pressoché sconfinato ed è rinnovabile come le fonti di energia di cui avremmo bisogno; si rinnova perché non esaurisce mai il suo impulso, né porta a termine il compito, perché questo quando appare concluso s’apre con nuova spinta propulsiva verso un altro tipo di racconto, se vogliamo, verso il futuro.
Oates da sempre converge su di sé tutto il carico – la rappresentazione, le sfaccettature – della società nordamericana, partendo dalla famiglia, dalle condizioni di quel nucleo intimo – che sia borghese, popolare, ricco o povero – e allargando lo sguardo sullo sfascio, sulla sua inevitabilità, sul dolore, sul declino, rallentato da forme di tenerezza, da qualche tipo d’amore, dal ghiaccio che di colpo si scioglie e muove i personaggi verso la commozione, le lacrime, perfino alla gioia.
Leggendo una raccolta molto ampia di racconti di recente pubblicata da La Tartaruga – Circostanze attenuanti (traduttori Pezzotta, La Peccerella e Spaziani), testi scritti tra gli anni Sessanta e gli anni Novanta – si può osservare una differente Oates, andando all’indietro. Scoprirla armeggiare con la tecnica narrativa, già densa di talento fin dai primi racconti, di capacità di sguardo che raccoglie tutto e che poi, piano piano, col tempo, con la penna che va sul foglio più pulita, più decisa, diventa sempre più capace di scegliere, di togliere. E non parliamo dell’aggettivo (non soltanto di quello), non parliamo di snellire le descrizioni, migliorare i dialoghi; parliamo innanzitutto di capire, Oates, a un certo punto, lo capisce che eliminare il colpo a sorpresa è una buona idea, e fa a meno del finale a effetto. Perché lei stessa non si sorprende, e le sue lettrici e i suoi lettori sono già sorpresi dalle prime parole.
Lo stupore – o l’incanto, o il miracolo, o il click (quello di cui parla Foster Wallace rimandando alle storie di Barthelme) – esiste già negli incipit, nel modo in cui la prosa si scioglie, nella maniera in cui i personaggi passano dall’essere figure non a fuoco a persone nitide, centrali, e così sono i loro gesti, e così succede agli oggetti. Ciò che ho provato a riassumere qui, lo fa dire Oates stessa a una delle sue protagoniste, nel racconto che si intitola La vendetta del piede, una breve storia che tiene insieme il romanticismo, la gioventù e un pochino di horror. Il personaggio principale, si allontana da una festa, a piedi, è circa mezzanotte, e attraversa gran parte della città, per arrivare a casa del suo amante, un docente più grande di lei, mentre cammina è attraversata da molti pensieri, angosce, la leggiamo così descritta:
Erano passati 48 minuti dopo la mezzanotte quando Elinor girò in Sullivan Street. Fino ad allora era stata invisibile, ma adesso, avvicinandosi alla casa del suo amante – un edificio in arenaria degli anni Venti, approssimativamente restaurato, in una fila di edifici analoghi, in parte restaurati e in parte cadenti – si sentì prendere forma come una Polaroid che si stesse materializzando.
Ecco, così come l’autrice stessa scrive, si materializzano i suoi personaggi, o le case, le macchine e gli oggetti, come Polaroid che si vanno a comporre. Qualcosa è lasciato al nostro intuito, poi tutto emerge, si costituisce, deflagra. I racconti di Circostazte attenuanti hanno questa caratteristica: si svelano a poco a poco. Il nucleo della storia pare essere tenuto inizialmente a margine, bisogna andare avanti, entrare nell’ottica degli attori, sentire come suonano le frasi, e a quel punto – in piena luce – la Polaroid è perfetta, senza sfocature, tra le nostre mani, davanti ai nostri occhi.
Se pensiamo all’evoluzione di una scrittrice, al modo di fare letteratura come un percorso in divenire, pieno si snodi e scelte, un percorso poliedrico – Oates non credo abbia passato più di qualche ora senza scrivere, tra racconti, saggi, romanzi, articoli e poesie -, un campo prima poco più grande di un giardino e poi vasto come una prateria; se pensiamo a tutto questo, allora leggiamo questi racconti come una continua scoperta.
Nei primi testi, Oates è di uno splendore che non ci aspettiamo, quasi grezzo, con finali – soprattutto – che non paiono appartenerle, finali da scuola di racconti, finali con il punto di domanda, finali a sorpresa (come dicevamo all’inizio). Lo splendore però c’è, quello che viene più avanti, nei racconti degli anni Settanta, Ottanta o Novanta, sono la pulizia, e la lucidità e precisione che l’hanno resa una delle più grandi scrittrici americane di tutti i tempi.
La scrittura è cambiata, dunque, i temi, le ossessioni, gli incubi, sono però rimasti gli stessi, e di questo, cara, carissima, Oates, noi ti ringraziamo. È sempre partita dall’oscurità, da un posto buio che è l’infanzia, l’adolescenza, i piccoli sobborghi americani – non ha mai avuto bisogno di New York per dirci come stavano le cose -, le piccole città dove ogni famiglia e ogni casa sono concentrati di fantasmi, di angosce, di paure ancestrali, di delitti del cuore, di squarci e suture. Le famiglie sono l’America, gli adolescenti sono le tracce per indicarne il futuro, e i personaggi più riusciti che ci aiutano a capire meglio il disegno di Oates sono le donne.
Arrivando agli ultimi racconti ci accorgiamo che abbiamo visto – e ne siamo felici – ogni cambiamento della scrittrice che passo dopo passo è diventata pressoché perfetta, sicura come non mai, ma grazie al cielo (o a chi ci pare) non ha mai perso il coraggio della giovinezza, lo spunto rude e fresco delle storie giovanili.
Articolo ripreso da: https://www.minimaetmoralia.it/wp/letteratura/oates-a-pezzi/
21 aprile 2024
IL 25 APRILE E' DIVISIVO ...
20 aprile 2024
LA TELEVISIONE PUBBLICA E IL GOVERNO MELONI NON VOGLIONO CHE SI PARLI DI FASCISMO E ANTIFASCISMO
Che il monologo di Antonio Scurati
sul 25 aprile, censurato dalla Rai, diventi un coro a voce alta
Questa
sera, nel corso della trasmissione Rai Che Sarà, Antonio Scurati
avrebbe dovuto leggere un testo dedicato al 25 aprile e all’antifascismo. Ma
questo intervento non ci sarà. È stato cancellato. Ne ha dato notizia la
conduttrice del programma censurato, Serena Bortone. Le parole del monologo
sono poi state pubblicate sul sito di Repubblica, e da lì le riprendo. La Rai,
soprattutto l’informazione Rai “governata” dalla destra, sta censurando
moltissimi fatti e notizie che riguardano da vicino le nostre vite e i nostri
bisogni. Ma il bavaglio messo a uno scrittore che voleva parlare di antifascismo,
Liberazione e quindi delle radici della nostra democrazia è evento che merita
di scatenare un !Ya basta! collettivo, e il suo monologo
dobbiamo poterlo leggere dappertutto, anche sulla pagina di questo blog
culturale e libero che, senza la Resistenza e la Liberazione, non sarebbe
proprio esistito. La destra non dovrebbe dimenticare, poi, che la Rai è servizio
pubblico, e che la paghiamo tutti noi. Cioè la destra post-fascista non
dovrebbe dimenticare che, anche se governa questo Paese, è minoranza in questo
Paese. Mentre la maggioranza delle italiane e degli italiani – maggioranza
purtroppo non elettorale ma numerica sì – non solo non è fascista ma è abitata
da una componente ancora vitale di antifascismo. Quella voce, viva e vegeta,
c’è ancora e saprà farsi ascoltare. Anzi cominciamo subito.
https://www.nazioneindiana.com/2024/04/20/che-il-monologo-di-antonio-scurati-sul-25-aprile-censurato-dalla-rai-diventi-un-coro-a-voce-alta/
Il
monologo di Antonio Scurati
«Giacomo
Matteotti fu assassinato da sicari fascisti il 10 di giugno del 1924. Lo
attesero sotto casa in cinque, tutti squadristi venuti da Milano,
professionisti della violenza assoldati dai più stretti collaboratori di Benito
Mussolini. L’onorevole Matteotti, il segretario del Partito Socialista
Unitario, l’ultimo che in Parlamento ancora si opponeva a viso aperto alla
dittatura fascista, fu sequestrato in pieno centro di Roma, in pieno giorno,
alla luce del sole. Si batté fino all’ultimo, come lottato aveva per tutta la
vita. Lo pugnalarono a morte, poi ne scempiarono il cadavere. Lo piegarono su
se stesso per poterlo ficcare dentro una fossa scavata malamente con una lima
da fabbro. Mussolini fu immediatamente informato.
Oltre
che del delitto, si macchiò dell’infamia di giurare alla vedova che avrebbe
fatto tutto il possibile per riportarle il marito. Mentre giurava, il Duce del
fascismo teneva i documenti insanguinati della vittima nel cassetto della sua
scrivania. In questa nostra falsa primavera, però, non si commemora soltanto
l’omicidio politico di Matteotti; si commemorano anche le stragi nazifasciste
perpetrate dalle SS tedesche, con la complicità e la collaborazione dei
fascisti italiani, nel 1944. Fosse Ardeatine, Sant’Anna di Stazzema,
Marzabotto. Sono soltanto alcuni dei luoghi nei quali i demoniaci alleati di
Mussolini massacrarono a sangue freddo migliaia di inermi civili italiani. Tra
di essi centinaia di bambini e perfino di infanti. Molti furono addirittura
arsi vivi, alcuni decapitati.
Queste
due concomitanti ricorrenze luttuose – primavera del ’24, primavera del ’44 –
proclamano che il fascismo è stato lungo tutta la sua esistenza storica – non
soltanto alla fine o occasionalmente – un irredimibile fenomeno di sistematica
violenza politica omicida e stragista. Lo riconosceranno, una buona volta, gli
eredi di quella storia? Tutto, purtroppo, lascia pensare che non sarà così. Il
gruppo dirigente post-fascista, vinte le elezioni nell’ottobre del 2022, aveva
davanti a sé due strade: ripudiare il suo passato neo-fascista oppure cercare
di riscrivere la storia. Ha indubbiamente imboccato la seconda via.
Dopo
aver evitato l’argomento in campagna elettorale, la Presidente del Consiglio,
quando costretta ad affrontarlo dagli anniversari storici, si è pervicacemente
attenuta alla linea ideologica della sua cultura neofascista di provenienza: ha
preso le distanze dalle efferatezze indifendibili perpetrate dal regime (la
persecuzione degli ebrei) senza mai ripudiare nel suo insieme l’esperienza
fascista, ha scaricato sui soli nazisti le stragi compiute con la complicità
dei fascisti repubblichini, infine ha disconosciuto il ruolo fondamentale della
Resistenza nella rinascita italiana (fino al punto di non nominare mai la
parola “antifascismo” in occasione del 25 aprile 2023).
Mentre
vi parlo, siamo di nuovo alla vigilia dell’anniversario della Liberazione dal
nazifascismo. La parola che la Presidente del Consiglio si rifiutò di
pronunciare palpiterà ancora sulle labbra riconoscenti di tutti i sinceri
democratici, siano essi di sinistra, di centro o di destra. Finché quella
parola – antifascismo – non sarà pronunciata da chi ci governa, lo spettro del
fascismo continuerà a infestare la casa della democrazia italiana.»